di SEBASTIANO MESSINA, la Repubblica – Martedì, 19 novembre 1996 – pagina 4
“E in fondo puntava a una nuova collaborazione con la Dc“
D’ ALEMA: L’ ERRORE DI ENRICO BERLINGUER? RIMANERE COMUNISTA
E nel 1980 la svolta di Salerno, anzi di Vietri
Il nuovo assetto dell’economia mondiale
ROMA – Quattro mesi prima di morire, Enrico Berlinguer andò ai funerali di Andropov portandosi dietro Massimo D’Alema, appena tornato a Roma dalla missione pugliese. Tutti e due furono cortesissimamente fermati in una saletta del Cremlino, prima di arrivare alla camera ardente. “Dobbiamo aspettare che arrivi la vostra corona di fiori” spiegarono i dirigenti sovietici. Era una scusa, perché quando venne finalmente il loro turno Berlinguer e D’Alema trovarono la corona già accanto alla salma. Allora il segretario del più grande partito comunista dell’Occidente si girò verso il giovane D’Alema e gli disse: “Vedi: non era vero! Ora ti spiego quali sono le leggi generali che caratterizzano tutti i paesi socialisti. La prima legge generale è questa: i dirigenti dicono sempre le bugie, anche quando non è necessario. La seconda è questa: l’agricoltura non funziona. La terza legge, caro D’Alema, la terza legge è che le caramelle hanno tutte la carta attaccata”. C’era, in quelle parole, tutto il disincanto, l’amarezza e la lucidità di un leader politico che da tempo non credeva più nel mito del socialismo realizzato. Eppure – nota oggi l’uomo che ne ha preso il posto al secondo piano delle Botteghe Oscure – neanche Berlinguer, il coraggioso segretario dello “strappo” con Mosca, neanche l’uomo che sfidò platealmente il comunismo di rito sovietico, fu capace di rompere definitivamente con quel mondo e di portare il suo partito fuori dal movimento comunista. Siamo nella palazzina ai Parioli della Laterza, e davanti a un libro fresco di stampa di Giuseppe Chiarante, “Da Togliatti a D’ Alema”, chiunque potrebbe cogliere un paradosso. Un “vecchio liberale” come Eugenio Scalfari sostiene che il Pci di Berlinguer era pronto già nel 1979 a giocare un ruolo di governo nella democrazia italiana, ricordando le parole di Ugo La Malfa (“Sono arrivati all’ appuntamento”), mentre il segretario del Pds sostiene che no, il Pci non era pronto perché era ancora troppo comunista.
“Non è vero – afferma D’Alema – che nel ‘ 79 si consumò una separazione. Né nel 1979 ne nel 1981. Certamente furono passi in avanti rilevantissimi, nell’assunzione di una posizione critica. Ma non si consumò una separazione, perché continuò a pesare su di noi l’illusione di una riformabilità del socialismo reale, l’idea che la sua crisi sarebbe potuta avvenire attraverso una riforma democratica del comunismo di cui l’esperienza della sinistra in Occidente doveva essere l’elemento decisivo. Eppure quella grande illusione era stata sconfitta molto, molto, molto tempo prima: con l’arrivo dei carri armati sovietici a Praga, nel 1968”.
Scalfari, il giornalista che era diventato “un intimo amico” del segretario comunista, e D’ Alema, che ne è stato l’allievo politico più sgobbone, inquadrano e leggono in maniera opposta anche la svolta di Salerno del 1980, un evento che il leader pidiessino ribattezza con irriverente pignoleria come “la svolta di Vietri”.
Ricorda Scalfari: “Berlinguer si era reso conto molto lucidamente che stava nascendo anche nel Pci dell’era consociativa un’anima dorotea attratta dal potere per il potere, perché il tentativo di preservare la classe dirigente del Pci dai vizi e dalle tentazioni della società italiana era solo parzialmente riuscito, e aveva deciso di arroccarsi nella diversità comunista. Per lui la questione morale era una battaglia politica: Berlinguer chiarì che il problema non era di stabilire chi avesse rubato di più o di meno, ma di reagire a chi aveva occupato le istituzioni e le aveva piegate all’utilità degli occupanti”.
Replica il segretario del Pds, contestando il titolo del libro (“Dovevate scrivere ‘Da Togliatti a Occhetto’ , il Pci è finito lì”) e giudicando “esagerato il clamore sulle critiche a Berlinguer”: “Mentre sono del tutto persuaso che negli ultimi anni Berlinguer abbia compiuto uno straordinario sforzo di elaborazione culturale, dal punto di vista politico quegli anni segnarono non un’avanzata ma un arretramento. Io non escludo affatto che lui, quando sferrò l’attacco più duro e frontale contro il craxismo, pensasse a una nuova collaborazione con la Dc. Anzi, non credo che in nessun momento della sua vita Berlinguer abbia abbandonato quel disegno. Compromesso e alternativa convivevano. Perché il limite con il quale Berlinguer si scontra, consapevolmente, sta nell’impossibilità per il Pci di rappresentare un’alternativa di classe dirigente, un ricambio in chiave europea. Una riforma delle istituzioni pensata in funzione dell’alternanza era fuori dal suo orizzonte”. E questo, spiega D’Alema, “perché bisognava mettere in discussione, caro Scalfari, non solo il rapporto con Mosca ma anche la natura del partito come grande partito comunista. Ecco perché c’è voluta la svolta del Pds”.
Mi astengo.dal commentare.la prosopopea di quest’uomo è quasi ineguagliabile nel circo politico italiano.
D’Alema lo chiama errore; io lo chiamerei la virtù di Enrico fu sempre quella di rimanere comunista e di non cedere mai, a differenza di altri tra cui il caro Massimo, a giochi di potere o smanie di protagonismo.
Una volta ho ascoltato D’Alema alla festa dell’Unità a Livorno che disse “non si può vivere di rimpianti” ; il problema è che la classe dirigente di sinistra dopo Enrico non ha fatto che farcelo rimpiangere ad ogni occasione!