di Filippo Ceccarelli, La Stampa 18 giugno 2004
E se Enrico tornasse? Tutto gli apparirebbe distante, a partire dai dirigenti che furono suoi allievi.
CHISSÀ se Enrico Berlinguer avrebbe apprezzato la definizione di «gabbiano delle nostre vite» assegnatagli all’inizio della lirica che si staglia sulla quarta di copertina di un opuscolo dei deputati ds. Gabbiano? E poi anche «vento dei nostri pensieri», e «vela dei nostri entusiasmi». Per concludersi nel «rosso delle nostre bandiere». Ma «nostre» di chi, oramai? La poesia è firmata, con ispiratissima civetteria, «Anonimo». Così, tanto per passare inosservato. E vabbè. Ieri il gruppo parlamentare della Camera ha dedicato a Berlinguer un salone che da poco si chiamava – sul serio – «Pensieri in cammino». Il decoro delle istituzioni ha certamente tratto vantaggio dalla nuova denominazione, e anche il salone stesso, e i deputati ds, insomma tutti. Segno che ancora oggi, anche senza volerlo, l’anacronismo di un leader continua ad alimentare la dignità della politica, a partire dalle sue forme, che al momento risultano vacue, futili e sgangheratissime.
Ora non si fa, non è giusto, non è corretto, per certi versi è addirittura assurdo, ma la tentazione di chiedersi cosa farebbe oggi Berlinguer è irresistibile. Lui così serio ed elegante nella sua antica semplicità, lui così devoto alla dimensione collettiva dell’impegno, al sacrificio altruistico della militanza. E i suoi epigoni, invece, pallidi nei loro tagli di sartoria, brillanti e ambiziosi, ma soprattutto concentrati su se stessi, e forse anche per questo condannati alla discordia reciproca, imprigionati in un’unica gabbia di risentimenti, fino al paradosso dell’incomunicabilità. E’ inutile, prima che ingeneroso, buttargli addosso la potenza di un Mito; misurare con lo stesso metro le manchevolezze dei «ragazzi di Berlinguer» e la drammatica grandezza del padre. Ma gli anniversari e le cerimonie, specie quelle istituzionali con le bandiere e i commessi in alta uniforme, sono inesorabili fabbriche di retorica; e allora solo il vano, ma efficace confronto tra i cerimonieri e il celebrato riesce a stemperare la ridondanza. «Ah, se lui fosse oggi con noi…»: Giovanni Berlinguer, nel 1995, scrisse sull’Unità che questo la gente seguitava a dirgli, con dolore e rimpianto per il passato, ma anche «disagio per il presente». Come Moro per la dc, così per tutto un mondo che oggi potrebbe definirsi post-comunista la morte di Berlinguer ha significato, semplicemente, perdere l’anima. Rinunciare agli ideali senza nemmeno rendersene conto. Doveva succedere, prima o poi.
Ma intanto ieri l’occhio vagava sulla prima fila appagata, sulle nuche dei giovani leoni diessini, e un po’ francamente veniva anche da pensare al bingo, alle camicie con le cifrette, all’ingresso nel salotto Angiolillo, al culto vissaniano, all’eau de gauche, alle poltroncine di Porta a porta. Nulla che sia un peccato, né un reato. E però il sospetto è che il segreto del carisma di Berlinguer riposasse in uno stile più che sorvegliato, quasi penitenziale. Questi invece sembra che se la godano. E’ la modernità, è nel loro pieno diritto, ci mancherebbe. Ma appena aprono bocca per affrontare un tema politico la gente sente odore d’ambizione e smette di ascoltare. Te lo vedi Berlinguer che molla i lavori parlamentari per correre la Mille Miglia delle auto d’epoca? O che balla al «Gilda» e canta alle feste della Confindustria? I suoi eredi hanno gli autisti, i sarti, gli sponsor, i consulenti, i ghost-writer. Scrivono precoci autobiografie che diventano best-seller – pure sbagliando, se è per questo, la data di morte di Berlinguer. Piccolo errore se si pensa che nella ricorrenza del 2001 dal Botteghino dirottarono fotografi e cameramen al cimitero sbagliato (al Verano, cioè, invece che a Prima Porta). E insomma, forse va bene così. Quelle sono le manie dei moralisti. Le lancette della storia, oltretutto, non si riportano indietro. E’ mutato il contesto, sono venute meno le coordinate e del comunismo di Berlinguer si vedono con chiarezza i limiti teorici e pratici, le contraddizioni, le rigidità. Ma lo stile personale, beh, quello s’è irrimediabilmente perso. Purtroppo.
Così, di nuovo, entrando a Palazzo Montecitorio, era un po’ triste notare come proprio ieri mattina le auto blu fossero riuscite a infilarsi di nuovo nella piazza proibita, a decine e decine, eterno privilegio di quel potere da cui Berlinguer si era sempre tenuto ben lontano. Dentro, nella sala della Lupa, il presidente Casini e Massimo D’Alema, che Berlinguer scelse nel 1975 come leader della Fgci, hanno svolto il loro compito con un certo garbo. Soprattutto D’Alema si è ben guardato dall’edulcorare la severità etica, le regole, i percorsi educativi, la disciplina di quella lezione così inattuale. Ma anche il suo ricordo si poteva leggere controluce. A quel punto, tutto sommato, tanto valeva spingersi a ricordare – come dieci anni orsono nel «Dialogo su Berlinguer» con Paul Ginsborg (Giunti) – la testimonianza resagli personalmente dall’ultimo vero leader del pci sulle «Tre Grandi Leggi del Socialismo Reale». Tanto preziosa, quanto rivelatrice di disincantata sapienza. E dunque, prima legge: i gruppi dirigenti dicono sempre bugie, anche quando non è necessario. Seconda: l’agricoltura va sempre male. Terza (e fantastica): le caramelle hanno sempre la carta appiccicata sopra.