di Enrico Berlinguer, 12 ottobre 1973, Rinascita
Abbiamo constatato che la via democratica non è né rettilinea né indolore. Più in generale il cammino del movimento operaio quali che siano le forme di lotta, non è stato mai né può essere una ascesa ininterrotta. Ci sono sempre alti e bassi, fasi di avanzata cui seguono fasi in cui il compito è di consolidare le conquiste raggiunte, e anche fasi in cui bisogna saper compiere una ritirata per evitare la disfatta, per raccogliere le forze e per preparare le condizioni di una ripresa del cammino in avanti. Questo vale sia quando il movimento operaio combatte stando all’opposizione sia quando esso conquista il potere o va al governo.
Ha scritto Lenin: «Bisogna comprendere – e la classe rivoluzionaria impara a comprendere dalla propria amara esperienza – che non si può vincere senza aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata». Lenin stesso, che è stato certamente il capo rivoluzionario più audace nella scienza dell’offensiva, è stato anche il più audace nel saper cogliere tempestivamente i momenti del consolidamento e della ritirata, e nell’utilizzare questi momenti per prendere tempo, per riorganizzare le forze e per riprendere l’avanzata. Due esempi rivelatori di queste geniali capacità di lenin furono il compromesso con l’imperialismo tedesco sancito con la pace di Brest Litovsk, e il compromesso con forze capitalistiche interne che caratterizzò quell’indirizzo che va sotto il nome di Nep (Nuova Politica Economica). Né va dimenticato che Lenin non esitò a compiere tali scelte andando contro corrente. Queste due grandi operazioni rivoluzionarie, che contribuirono in modo decisivo a salvare il potere sovietico e a garantirgli l’avvenire, vennero attuate in condizioni storiche irripetibili, ma il loro insegnamento di lungimiranza e sapienza tattica rimane integro.
L’obiettivo di una forza rivoluzionaria, che è quello di trasformare concretamente i dati di una determinata realtà storica e sociale, non è raggiungibile fondandosi sul puro volontarismo e sulle spinte spontanee di classe dei settori più combattivi delle masse lavoratrici, ma muovendo sempre dalla visione del possibile, unendo la combattività e la risolutezza alla prudenza e alla capacità di manovra. Il punto di partenza della strategia e della tattica del movimento rivoluzionario è la esatta individuazione dello stato dei rapporti di forza esistenti in ogni momento e, più in generale, la comprensione del quadro complessivo della situazione internazionale e interna in tutti i suoi aspetti, non isolando mai unilateralmente questo o quello elemento.
La via democratica al socialismo è una trasformazione progressiva – che in Italia si può realizzare nell’ambito della Costituzione antifascista – dell’intera struttura economica e sociale, dei valori e delle idee guida della nazione, del sistema di potere e del blocco di forze sociali in cui esso si esprime. Quello che è certo è che la generale trasformazione per via democratica che noi vogliamo compiere in Italia, ha bisogno, in tutte le sue fasi, e della forza e del consenso.
La forza si deve esprimere nella incessante vigilanza, nella combattività delle masse lavoratrici, nella determinazione a rintuzzare tempestivamente – ci si trovi al governo o all’opposizione – le manovre, i tentativi e gli attacchi alle libertà, ai diritti democratici e alla legalità costituzionale. Consapevoli di questa necessità imprescindibile, noi abbiamo messo sempre in guardia le masse lavoratrici e popolari, e continueremo a farlo, contro ogni forma di illusione o di ingenuità, contro ogni sottovalutazione di propositi aggressivi delle forze di destra. In pari tempo, noi mettiamo in guardia da ogni illusione gli avversari della democrazia. Come ha ribadito il compagno Longo al XIII Congresso, chiunque coltivasse propositi di avventura sappia che il nostro partito saprebbe combattere e vincere su qualunque terreno, chiamando all’unità e alla lotta tutte le forze popolari e democratiche, come abbiamo saputo fare nei momenti più ardui e difficili.
Del “consenso” la profonda trasformazione della società per via democratica ha bisogno in un significato assai preciso: in Italia essa può realizzarsi solo come rivoluzione della grande maggioranza della popolazione; e solo a questa condizione, “consenso e forza” si integrano e possono divenire una realtà invincibile.
Tale rapporto tra forza e consenso è del resto necessario quali che siano le forme di lotta adottate, anche se si tratta di quelle più avanzate fino a quelle cruente. Il nostro movimento di liberazione nazionale, che fu un movimento armato, ha potuto resistere e vincere perché era fondato sull’unità di tutte le forze popolari e democratiche e perché ha saputo conquistarsi il sostegno e il consenso della grande maggioranza della popolazione. Del resto, anche sulla sponda opposta, si è visto che i movimenti antidemocratici e lo stesso fascismo non possono affermarsi e vincere unicamente con il ricorso alla violenza reazionaria, ma hanno bisogno di una base di massa più o meno estesa, soprattutto in paesi con una struttura economica e sociale complessa ed articolata. Ed è perfino ovvio ricordare che, più in generale, il dominio della borghesia non si regge solo sugli strumenti (da quelli più brutali a quelli più raffinati) della coercizione e della repressione, ma si regge anche su una base di consenso più o meno manipolato, su un certo sistema di alleanze sociali e politiche.
È il problema delle alleanze, dunque, il problema decisivo di ogni rivoluzione e di ogni politica rivoluzionaria, ed esso è quindi quello decisivo anche per l’affermazione della via democratica. In paesi come l’Italia si deve muovere dalla constatazione che si sono create ed esistono una stratificazione sociale e una articolazione politica assai complesse.
Lo sviluppo capitalistico italiano ha dato luogo alla formazione di un proletariato consistente. Questa classe che una lunga esperienza di lotte – siamo quasi a un secolo di battaglie proletarie – che l’opera educatrice del movimento socialista che l’influenza decisiva che su di essa esercita da cinquant’anni il partito comunista, hanno reso particolarmente combattiva e matura; questa classe, che è la forza motrice di ogni processo di trasformazione della società, tuttavia rimane pur sempre una minoranza della popolazione del nostro paese e della stessa popolazione lavoratrice. Così è anche, in misura maggiore o minore, in quasi tutti gli altri paesi capitalistici. Tra il proletariato e la grande borghesia – le due classi antagoniste fondamentali nel regime capitalistico – si è infatti creata, nelle città e nelle campagne, una rete di categorie e di strati intermedi, che spesso si sogliono considerare nel loro complesso e chiamare genericamente «ceto medio», ma di ognuno dei quali in realtà occorre individuare e definire concretamente la precisa collocazione e funzione nella vita sociale, economica e politica e gli orientamenti ideali.
Accanto e spesso intrecciati a questi ceti e categorie intermedie e al proletariato esistono poi nella nostra società strati di popolazione e forze sociali (si tratta, per esempio, di larga parte delle popolazioni del Mezzogiorno e delle isole, delle masse femminili e giovanili, delle forze della scienza, della tecnica, della cultura e dell’arte) che non sono assimilabili, come tali, nella dimensione di «categorie», e che tuttavia hanno una condizione nella società che le accomuna e in una certa misura le unisce, al di là della propria posizione professionale e persino della propria appartenenza a un determinato ceto sociale.
Appare chiarissimo che per l’esito della battaglia democratica che conduciamo per la trasformazione e il rinnovamento della nostra società è determinante dove si situano, in che senso sono orientate e come si muovono queste masse, questi ceti intermedi, questi strati di popolazione. È del tutto evidente, cioè, come sia decisivo per le sorti dello sviluppo democratico e dell’avanzata al socialismo che il peso di tali forze sociali venga a spostarsi o a fianco della classe operaia oppure contro di essa.
Da questa struttura economica e stratificazione sociale dell’Italia noi non abbiamo ricavato soltanto conseguenze che riguardano la nostra politica nella fase attuale, ma abbiamo fissato dei punti fermi che riguardano il posto che hanno nella rivoluzione italiana questioni come quella meridionale, femminile, giovanile, della scuola e della cultura, e la funzione dei ceti intermedi.
A proposito di questi ultimi, nel documento, più impegnativo del nostro partito, che è la Dichiarazione programmatica approvata dall’VIII Congresso (1956) si afferma: «Si stabilisce, oggettivamente, una concordanza di fini fra la classe operaia, che lotta contro i monopoli e per abbattere il capitalismo, non più solo con le masse proletarie e semiproletarie, ma con la massa dei coltivatori diretti nelle campagne e con una parte importante dei ceti medi produttivi nelle città, ciò che consente nuove possibilità per l’allargamento del sistema di alleanze della classe operaia e delle basi di massa per un rinnovamento democratico e socialista.
«La massa del ceto medio è costituita da stratificazioni e gruppi sociali diversi, in relazione alle diverse caratteristiche economiche e sociali e al diverso grado di sviluppo delle diverse zone. Pur essendo quindi necessario un approfondimento differenziato da zona a zona, la possibilità di una alleanza permanente della classe operaia con strati del ceto medio della città e della campagna è determinata da una convergenza di interessi economici e sociali che trae origine dallo sviluppo storico e dalla attuale struttura del capitalismo…
«D’altra parte deve essere chiaro che per gruppi decisivi di ceto medio il passaggio a nuovi rapporti di tipo socialista o socialisti non avverrà che sulla base del loro vantaggio economico e del libero consenso, e che in una società democratica che si sviluppi verso il socialismo sarà garantita la loro attività economica».
La strategia delle riforme può dunque affermarsi e avanzare solo se essa è sorretta da una strategia delle alleanze. Anzi, noi abbiamo sottolineato che, nel rapporto tra riforme e alleanze, queste sono la condizione decisiva perché, se si restringono le alleanze della classe operaia e si estende la base sociale dei gruppi dominanti, prima o poi la realizzazione stessa delle riforme viene meno e tutta la situazione politica va indietro, fino anche a rovesciarsi.
Naturalmente, la politica delle alleanze ha il suo punto di partenza nella ricerca di una convergenza tra gli interessi economici immediati e di prospettiva della classe operaia e quelli di altri gruppi e forze sociali. Ma tale ricerca non va concepita e attuata in modo schematico o statico. Occorre, cioè, indicare rivendicazioni e perseguire obiettivi che offrano concretamente a questi strati di popolazione e a queste forze e gruppi sociali una certezza di prospettive che garantiscano in forme nuove e possibilmente migliorino il loro livello di esistenza e il loro ruolo nella società, ma in un diverso sviluppo economico e in un più giusto e più moderno assetto sociale.
A questo scopo diviene necessario lavorare anche per determinare una evoluzione nella stessa mentalità di questi ceti e forze sociali, nel senso di allargare in tutta la popolazione una visione sempre meno individualistica o corporativa e sempre più sociale della difesa degli interessi dei singoli e di quelli della collettività.
Noi non ci limitiamo, dunque, a ricercare e a stabilire convergenze con figure sociali e categorie economiche già definite, ma tendiamo a conquistare e a comprendere in un articolato schieramento di alleanze interi gruppi di popolazione, forze sociali non classificabili come ceti, quali sono, appunto, le donne, i giovani e le ragazze, le masse popolari del Mezzogiorno, le forze della cultura, movimenti di opinione, e proponiamo obiettivi non soltanto economici e sociali, ma di sviluppo civile, di progresso democratico, di affermazione della dignità della persona, d’espansione delle molteplici libertà dell’uomo. Ecco il modo con cui noi intendiamo e compiamo il lavoro concreto per costruire e preparare le basi, le condizioni e le garanzie di quello che si vuole chiamare un «modello» nuovo di socialismo.
Un grosso problema che ci impegna in sede politica e che deve impegnare di più, in sede teorica, i marxisti e gli studiosi avanzati dell’Italia e dei paesi dell’Occidente, è come far sì che un programma di profonde trasformazioni sociali – che determina necessariamente reazioni di ogni tipo da parte dei gruppi retrivi – non venga effettuato in modo da sospingere in posizione di ostilità vasti strati dei ceti intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione. Ciò, evidentemente, comporta una attenta scelta delle priorità e dei tempi delle trasformazioni sociali e comporta, di conseguenza, l’adoperarsi non solo per evitare un collasso dell’economia ma per garantire anzi, anche nelle fasi critiche di passaggio a nuovi assetti sociali sociali, l’efficienza del processo economico.
Questo è certamente uno dei problemi vitali che ha dinnanzi a sé un governo di forze lavoratrici e popolari; ma è un problema altrettanto fondamentale in un paese come l’Italia, ove una forza grande come la nostra uscita da tempo dal terreno della pura propaganda, cerca, fin da ora, dall’opposizione, con l’arma della pressione di massa e dell’iniziativa politica unitaria, di imporre l’avvio di un programma di trasformazioni sociali.
Se è vero che una politica di rinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di una politica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema di rapporti politici, tale che favorisca una convergenza e una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse di una alleanza politica.
D’altronde, la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico.
Di ciò consapevoli noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti di lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dal centro fino alla estrema destra. Il problema politico centrale in Italia è stato, e rimane più che mai, proprio quello di evitare che si giunga a una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte di tipo clerico-fascista e di riuscire invece a spostare le forze sociali e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche.
Ovviamente, l’unità, la forza politica ed elettorale delle sinistre e la sempre più solida intesa tra le loro diverse e autonome espressioni, sono la condizione indispensabile per mantenere nel paese una crescente pressione per il cambiamento e per determinarlo. Ma sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande passo avanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia) questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento
Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica» e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico.
La nostra ostinazione nel proporre questa prospettiva è oggetto di polemiche e di critiche di varia provenienza. Ma la verità è che nessuno dei nostri critici e obiettori ha saputo e sa indicare un’altra prospettiva valida, capace di far uscire l’Italia dalla crisi in cui è stata gettata dalla politica di divisione delle forze democratiche e popolari, di avviare a soluzione gli immani e laceranti problemi economici, sociali e civili che sono aperti e di garantire l’avvenire democratico della nostra Repubblica.
E del resto, a veder bene, le polemiche e i tentativi di rendere impossibile la prospettiva che noi proponiamo non hanno impedito che essa, invece, si sia affermata e si affermi nella coscienza di sempre più larghe masse popolari e nei loro movimenti reali, come anche, in una certa misura e in vari modi, nella stessa vita politica e nei partiti. Sta qui la comprova che il problema da noi posto diventa ogni giorno più maturo e urgente. E se nessuno è in grado di prospettare una diversa alternativa democratica altrettanto valida e credibile rispetto a quella da noi proposta, ciò è perché tale diversa alternativa, in Italia, non c’è.
La nostra politica di dialogo e di confronto con il mondo cattolico si sviluppa necessariamente su diversi piani e con diversi interlocutori.
Vi è innanzitutto il problema, sul quale la nostra posizione di principio e la nostra linea politica sono note, posto dalla presenza in Italia della Chiesa cattolica, e dai suoi rapporti con lo Stato e con la società civile. Vi è poi il problema della ricerca di una più ampia comprensione reciproca e di una intesa operante con quei movimenti e tendenze di cattolici che, in numero crescente, si collocano nell’ambito del movimento dei lavoratori e si orientano in senso nettamente anticapitalistico e antiimperialistico.
Ma non si può certo pensare di sfuggire all’altro grande problema costituito dalla esistenza e dalla forza di un partito politico come la Democrazia cristiana, che a parte la qualificazione di «cristiana» che esso dà di se stesso, raccoglie nelle sue file o sotto la sua influenza una larga parte delle masse lavoratrici e popolari di orientamento cattolico.
“Rinascita” ha pubblicato alcuni mesi or sono una serie di articoli e di saggi nei quali sono stati esaminati e vagliati i vari aspetti della questione della Dc. Rimandiamo a essi il lettore, limitandoci noi, in questa sede, a riproporre il tema nei suoi termini di fondo.
L’errore principale da cui bisogna guardarsi è quello di giudicare la Democrazia cristiana italiana, e anzi tutti i partiti che portano questo nome, quasi come una categoria astorica, quasi metafisica, per sua natura destinata, in definitiva, a essere o a divenire sempre o ovunque un partito schierato con la reazione. Ed è davvero risibile che a ciò si riduca, nella sostanza, tutta l’analisi sulla Dc che ci viene data da gente che, con tanta spocchia, cerca di salire in cattedra per impartire a tutti lezione di marxismo.
Naturalmente il nostro giudizio sulla Dc è ugualmente lontano da quello che di essa danno quei suoi dirigenti i quali, rovesciando il contenuto ma mantenendo il medesimo metodo astorico che ora abbiamo criticato, presentano la Dc come un partito che, «per sua natura», sarebbe il garante delle libertà e l’alfiere del progresso democratico. In realtà, entrambi i giudizi che abbiamo ricordato sono privi di effettiva serietà e hanno entrambi un carattere puramente strumentale. Il solo criterio marxista, o che voglia essere anche solo fondato sulla serietà politica, consiste nel considerare la Dc sia nel contesto storico politico in cui è collocata e opera che nella composita realtà sociale e politica che in essa si esprime. Solo in questo modo è possibile mettersi in grado di intervenire e di influire realmente sugli orientamenti e sulla condotta pratica di tale partito.
Noi abbiamo sempre avuto ben presente il legame tra la Democrazia cristiana e i gruppi dominanti della borghesia e il loro peso rilevante, e in certi momenti determinante, sulla politica della Dc. Ma nella Dc e attorno ad essa si raccolgono anche altre forze e interessi economici e sociali, da quelli di varie categorie del ceto medio sino a quelli, assai consistenti soprattutto in alcune regioni e zone del paese, di strati popolari, di contadini, di giovani, di donne ed anche di operai. Anche il peso e le sollecitazioni provenienti dagli interessi e dalle aspirazioni di queste forze sociali si sono fatti sentire in misura più o meno avvertibile nel corso della vita e della politica della Dc e possono essere portati a contare sempre di più.
Oltre a questa varia e contraddittoria composizione sociale della Dc vanno prese in considerazione le sue origini, la sua storia, le sue tradizioni e le differenti tendenze politiche e ideali che si sono agitate e si agitano nel suo interno, da quelle reazionarie a quelle conservatrici e moderate fino a quelle democratiche e anche progressiste. Tutto ciò contribuisce a spiegare come le vicende storiche di questo partito siano state assai tortuose e spesso contrassegnate da atteggiamenti tra loro antitetici. Nato come partito popolare, democratico e laico esso si oppose all’inizio al movimento fascista, passando poi all’appoggio e alla partecipazione al primo governo Mussolini, staccandosene successivamente per giungere, attraverso un faticoso travaglio, alla partecipazione alla lotta clandestina e all’impegno pieno e diretto nella Resistenza, al fianco e in unità con le forze proletarie e popolari. Dopo la liberazione, dopo l’avvento della Repubblica e dopo l’elaborazione della Costituzion
e, frutto di un accordo tra i tre grandi partiti di massa (comunista, socialista e democristiano) fu proprio il partito democristiano – nel clima di divisione in Europa e nel mondo creato dall’incipiente guerra fredda – il principale artefice della rottura dell’alleanza di governo con i comunisti e con i socialisti, dell’unità sindacale e più in generale dell’intesa fra le forze antifasciste. E fu proprio la Dc a condurre da quel momento una politica di contrapposizione e di scontro frontale con il movimento operaio e popolare di ispirazione comunista e socialista. La sconfitta di questa politica, dovuta alle capacità di combattimento della classe operaia, dei braccianti, dei contadini, dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali e politiche, e dovuta anche alla tenacia con cui il nostro partito non ha mai deflettuto dalla sua linea unitaria, ha riaperto una prospettiva di avanzata al movimento democratico e al paese e ha creato una situazione nuova anche nella Dc. Essa, infatti,
pur mantenendo l’ispirazione conservatrice e moderata della sua linea, è stata messa nella impossibilità di riportare il paese alla condizione della spaccatura verticale e della contrapposizione frontale. Quando un suo uomo, Tambroni, si avventurò nel tentativo estremo di ripristinare tale condizione, fu travolto rapidamente da un grande moto popolare e unitario e liquidato dal suo stesso partito. Ma c’è di più: quando la Dc, sconfitta in questa sua linea, dette inizio a una manovra di nuovo tipo, con l’esperimento di centro-sinistra per giungere all’isolamento del Pci, essa fallì anche su questo terreno.
Dalla crisi di prospettive determinata dal fallimento di questi diversi tentativi per affermare una linea di divisione nel popolo e nel paese la Dc non è ancora uscita. Essa avverte che è assai difficile e che può essere gravido di avventure fatali per tutti e per se stessa giocare la carta della contrapposizione e dello scontro, ma non è giunta ancora a intraprendere con coerenza una strada opposta. E sta proprio in ciò una delle cause determinanti della crisi che attanaglia il paese.
Che fare? In quale direzione dobbiamo cercare noi di spingere le cose? Dalla sommaria ricapitolazione che abbiamo fatto della composizione sociale e della condotta politica della Dc risulta che questo partito è una realtà non solo varia, ma assai mutevole; e risulta che i mutamenti sono determinati sia dalla sua dialettica interna sia, e ancor più, dal modo in cui si sviluppano gli avvenimenti internazionali e interni, dalle lotte e dai rapporti di forza tra le classi e fra i partiti, dal peso che esercitano sulla situazione il movimento operaio e il Pci, dalla loro forza, dalla loro linea politica e dalla loro iniziativa. Si pensi alla vicenda più recente, quella del governo Andreotti: l’ostilità attiva delle masse popolari, la combattività e l’iniziativa unitaria dell’opposizione comunista, la battaglia del partito socialista e quella di gruppi, correnti e personalità della stessa Dc hanno portato allo sfaldarsi della coalizione di centro-destra e hanno creato una situazione in cui la st
essa maggioranza di forze interna alla Dc che aveva portato Andreotti al governo, o che comunque lo sosteneva, è venuta meno. La Dc ha dovuto abbandonare la linea e la prospettiva del centro-destra.
Tali essendo la realtà della Dc e il punto in cui essa si trova oggi, è chiaro che il compito di un partito come il nostro non può essere che quello di isolare e sconfiggere drasticamente le tendenze che puntano o che possono essere tentate di puntare sulla contrapposizione e sulla spaccatura verticale del paese, o che comunque si ostinano in una posizione di pregiudiziale preclusione ideologica anti-comunista, la quale rappresenta di per sé, in Italia, un incombente pericolo di scissione della nazione. Si tratta, al contrario, di agire perché persino sempre di più, fino a prevalere, le tendenze che, con realismo storico e politico, riconoscono la necessità e la maturità di un dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari senza che ciò significhi confusioni o rinuncia alle distinzioni e alle diversità ideali e politiche che contraddistinguono ciascuna di tali forze.
Certo, noi per primi comprendiamo che il cammino verso questa prospettiva non è facile né può essere frettoloso. Sappiamo anche bene quali e quante battaglie serrate e incalzanti sarà necessario condurre sui più vari piani, e non solo da parte del nostro partito, con determinazione e con pazienza, per affermare questa prospettiva. Ma non bisogna neppure credere che il tempo a disposizione sia indefinito. La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.