di Eugenio Scalfari, Venerdì di Repubblica del 14 novembre 2003
D’Alema, Amato e la loro Fondazione hanno organizzato un singolare convegno. Eugenio Scalfari commenta l’iniziativa, rispondendo alla lettera di un lettore, sul Venerdì di Repubblica del 14 novembre 2003.
Ho notizia che nei prossimi giorni, per iniziativa della Fondazione «Italiani e Europei» presieduta da Massimo D’Alema e da Giuliano Amato, si svolgerà un convegno sul craxismo al quale interverranno Stefania Craxi, Rino Formica, Gianni De Michelis, lo storico Sabatucci, oltre agli esponenti della predetta Fondazione e al segretario dei Ds, Piero Fassino. L’obiettivo del convegno, se ho capito bene, è una rivalutazione dell’opera politica di Bettino Craxi e di quelli che all’epoca furono i suoi principali collaboratori politici. Implicitamente, ma abbastanza chiaramente, un siffatto intendimento porterà ad una critica della politica di Enrico Berlinguer e quindi di tutto il gruppo dirigente dell’allora Pci, del resto già anticipato nel libro autobiografico recentemente pubblicato da Fassino. Considero radicalmente sbagliata un’iniziativa del genere. E Lei?
GIOVANNI MOLTENI Milano
Debbo pensare, gentile signor Molteni, che la domanda con cui lei conclude la sua lettera sia, come si dice, retorica, nel senso che lei conosce già la risposta se legge abitualmente Repubblica. In effetti io penso che un dibattito sul craxismo sia del tutto inutile poiché è ininterrottamente, ampiamente e liberamente avvenuto a partire dai primi anni Ottanta fino ad oggi. C’è ancora da scoprire qualcosa di nuovo in punto di fatto? Non direi.
Allora a che cosa serve? Forse a un’operazione battezzata magari come revisionistica ma in realtà di pura marca trasformista? Ho fondate ragioni per rispondere affermativamente a questa domanda, e mi spiego.
Bettino Craxi sostenne, nel corso della sua attività politica, parecchie tesi ampiamente condivisibili. Per esempio, e fin dai tempi in cui militava nella corrente nenniana del Psi, si batté per l’autonomia del Psi dal Pci dopo la fase del frontismo e della compromissione filosovietica del partito di Nenni. Si batté per la modernizzazione dell’economia. Si batté per la riforma di alcuni punti importanti della Costituzione riguardanti la forma di governo e la sua stabilità. Si batté per costruire una posizione socialista che non fosse necessariamente a rimorchio del Pci o della Dc.
Si batté. Ne ebbe, diciamo così, la visione strategica. Ma poi bisognava trovare i mezzi acconci – da lui ritenuti acconci – per realizzare i suddetti fini. E i mezzi furono l’esercizio sempre più spregiudicato del potere e l’occupazione delle istituzioni piegate a strumenti per conservare e accrescere il potere.
Ma poiché il potere è pur sempre insidiabile e insidiato e dunque precario e reversibile per definizione, specie in regimi di democrazia liberale, la sana ricerca della stabílità si deforma molto spesso in tendenza all’autoritarismo.
Così avvenne almeno in parte per il craxismo, il quale cominciò a pretendere che sia i capi dei grandi enti pubblici, sia i dirigenti della Pubblica amministrazione, sia i banchieri, sia gli imprenditori privati inalberassero una bandiera di appartenenza e riconoscimento.
La Dc e gli altri partiti della costellazione di governo non avevano certo bisogno di lezioni per muoversi sul terreno del potere, ma non c’è dubbio che la spregiudicatezza craxiana servì di giustificazione e di esempio emulativo; le pratiche già presenti negli anni Settanta, negli Ottanta divennero canone ed entrarono a far parte d’una sorta di costituzione materiale dell’illecito.
Il Partito socialista smarrì la strategia dei fini e eresse a strategia quella che era stata la tattica dei mezzi. I mezzi cioè diventarono fini con lo stesso processo degenerativo che nella Dc aveva portato al vertice del partito la corrente dorotea. Il famigerato Caf (Craxi Andreotti Forlani) fu il coronamento finale del sistema prima dell’esplosione dei referendum e di Tangentopoli.
Quando Enrico Berlinguer parlava con accenti di autentica disperazione di una sorta di mutazione genetica che si era prodotta nel Partito socialista, aveva sotto gli occhi questa fenomenologia che qualcuno con molta ipocrisia chiamò modernizzazione ma che nella realtà fu corruttela omertosa. Purtroppo, nella parte finale della gestione berlingueriana e dopo di essa, quell’omertà coinvolse in qualche misura anche il Pci.
Queste, signor Molteni, non sono opinioni ma fatti e percorsi accertati nella loro fattispecie concreta. E sono anche altrettanti corpi di reato provati dinanzi a tutti i gradi della giurisdizione.
Aggiungo ancora che l’impero mediatico di Berlusconi e il gigantesco suo conflitto di interessi nacquero da una costola dei craxismo e del doroteismo, dai quali hanno ereditato i metodi e anche i voti.
Immagino che D’Alema e Fassino abbiamo ben presenti questi fatti. Tanto più inspiegabili risultano dunque le iniziative prese per rivalutare un periodo e un gruppo politico al quale si deve in notevole misura non solo ciò che accadde allora ma anche ciò che è accaduto dopo e che tuttora incombe sulle sorti del Paese e sul suo livello di moralità pubblica.