Articolo su Rinascita, 22 agosto 1979
Nell’agosto del 1946, trentatré anni fa, Palmiro Togliatti scriveva per Rinascita un editoriale che, a rileggerlo oggi, offre l’occasione per meditare fruttuosamente sulle recenti vicende politiche italiane e sulle iniziative del nostro partito – di allora e di oggi – nell’individuare gli obiettivi e nel mobilitare unitariamente le forze capaci di salvare il paese rinnovandolo.
L’editoriale, scritto in un momento acuto dello scontro con De Gasperi sulla politica economica, era dedicato alla politica di Epicarmo Corbino (allora ministro liberale del Tesoro) e alla lotta dei comunisti e delle sinistre democratiche per dare un nuovo corso all’economia del paese. In esso, con scrupolosa e distaccata precisione, si fa il bilancio complessivo di quella fase della politica del Pci che Togliatti definì la fase di un «preciso compromesso» tra «le grandi ali» (quella progressiva e quella conservatrice) del «fronte antifascista».
Premesso che guerra di liberazione, Repubblica e Costituente «erano obiettivi da raggiungere a ogni costo e prima di qualsiasi altro» (e proprio a tal fine era indispensabile un larghissimo fronte antifascista), Togliatti afferma che quel compromesso aveva fondato e awiato la prospettiva «della democratizzazione del paese nel suo complesso», ma osserva subito che era venuta meno la «democratizzazione degli stessi conservatori, per la mancata presa di coscienza da parte loro delle condizioni reali della vita economica e della lotta politica in Italia». Ciò li portò a «riproporre e perseguire una politica di liberalismo ad oltranza, del tutto indifferenti alle pericolose conseguenze di essa; del tutto ciechi al processo di putrefazione e di caos, che comincia a manifestarsi nel paese per la chiara insufficienza della loro direzione economica; del tutto incapaci, quindi, di difendere seriamente i loro stessi interessi».
Il dibattito sul compromesso da noi proposto nella fase critica che attraversa da diversi anni la vita italiana può essere utilmente arricchito e può giovarsi di una riflessione critica e sull’altro lontano compromesso e sul bilancio tracciatone da Togliatti nell’agosto del 1946.
Né meschine transazioni né espedienti tattici
Per certi politici o politologi, ufficialmente impegnati o incaricati di insegnarci come fare la rivoluzione nell’Occidente, cioè nei paesi a capitalismo maturo (ma in effetti protesi a convincerci a battere strade che ci porterebbero o a rinunciare definitivamente alla rivoluzione o a mancarla), parlare di compromesso è un male in sé, che suscita scandalo, che provoca impennate moralistiche o irrisioni settarie.
Per costoro è lecita ogni sorta di compromesso quando si tratti di quelle meschine transazioni o di quei meri espedienti tattici che altri fanno ogni giorno nel modo più disinvolto con banchieri o ambasciatori stranieri, con gruppi industriali o con gruppi mafiosi, giocando contemporaneamente su più tavoli. Ma ove il compromesso cerchi di elevarsi al livello degli obiettivi che congiuntamente vanno perseguiti per una fase della storia, e ove i termini di esso siano resi palesi alle masse in tutta la loro nettezza e portata, allora il compromesso diventa cosa da ripudiare, da bollare come bieco proposito di instaurare un «regime» centralistico, oppressivo, antidemocratico.
Noi continuiamo ad essere convinti che un’avanzata del socialismo nella libertà e nella democrazia, in Italia e in Europa occidentale, esiga non solo un’alleanza politica e sociale delle forze motrici o sostenitrici di un processo realmente rivoluzionario, ma esiga che siano anche definiti con chiarezza e lealtà i termini concreti del compromesso che il blocco politico sociale rinnovatore offre ad altre componenti della società per conquistarne, nella concreta fase storica, il consenso o almeno la neutralità. Sicché, in un momento così difficile della nostra vita politica e di così grande incertezza sulle prospettive della stessa umanità, riteniamo necessario tornare a rendere palesi e ad approfondire i termini del compromesso oggi necessario. Le forze conservatrici dell’Italia degli anni ottanta dimostrano la stessa cecità e incapacità politica che l’editoriale di Rinascita denunciò allora? La stessa incapacità, persino, nel «difendere seriamente» i loro stessi interessi? Direi proprio di sì.
I conservatori non hanno saputo allearsi con la storia
C’è innanzitutto da rilevare una analogia importante con il compromesso di cui parlò Togliatti. Il tema che si pone oggi come centrale è esattamente lo stesso che si pose una volta vinta la guerra di liberazione e conquistate la Repubblica e la Costituente: è il tema, cioè, di un nuovo corso della vita economica.
Il tema della politica economica e sociale si pone oggi come l’elemento che più di ogni altro qualifica i contenuti immediati e di lunga prospettiva di un compromesso storico tra le forze democratiche fondamentali della società italiana. Ma quel tema si pone oggi in una situazione profondamente mutata, sia nei suoi termini oggettivi, sia dal punto di vista della maturazione politica, rispetto a trent’anni fa, della classe operaia e del suo maggior partito come forza di governo.
Tra scontri, strette, difficoltà, un grande cammino si è compiuto in questi decenni. E anche se la proprietà italiana non ha saputo volontariamente applicare per sé la legge della conservazione intelligente («perdere ogni giorno metodicamente qualche cosa per non perdere tutto») – se non ha dunque saputo «allearsi alla storia» – tuttavia essa è stata costretta da grandiose lotte politiche e sindacali ad accettare uno sviluppo della democrazia e a cedere ogni anno, ogni giorno qualche cosa.
Il capitalismo italiano ha avuto comunque un suo sviluppo (anche se abnorme, distorto, squilibrato) smentendo così certo catastrofismo alla Varga, dal quale anche il Pci non rimase immune, se si vanno a vedere certe sue analisi e posizioni nel 1946 (ma anche quelle del decennio successivo).
La crisi non sta solo nell’altalena tra inflazione e recessione
Le previsioni – sbagliate – di crisi legate alla quantità dello sviluppo si sono tuttavia dimostrate vere, nel medio periodo, per quanto riguarda la qualità dello sviluppo. Sono divenuti più gravi e acuti squilibri antichi, contraddizioni nuove sono esplose nella società e, dagli anni sessanta in poi, di fatto l’Italia oscilla cronicamente tra inflazione e recessione; il sistema non riesce più a garantire, nonostante l’apporto vasto di un’economia sommersa, l’assorbimento delle leve di lavoro.
«Il paese – veniva rilevato al XV Congresso – continua a dimostrare una capacità di resistenza e di vitalità, frutto dell’impegno delle sue energie più sane e combattive. Ma non ci possiamo nascondere che il corso complessivo delle cose sta puntando verso una decadenza. È un processo che a volte si riesce a contenere e ad arrestare, ma che poi riprende con lenti scivolamenti e anche con momenti convulsi».
Invero le crisi energetiche del 1973 e del 1979, la redistribuzione di risorse in atto sul piano mondiale hanno accentuato la decadenza e il carattere convulso di certe fasi (basta guardare a questa estate). Si sbaglierebbe, tuttavia, a definire la crisi del capitalismo italiano solo in termini di inflazione e recessione. Il rischio di inflazione e recessione c’è ed è gravissimo. Ed esso, da solo, è tale da giustificare l’appello nostro alla solidarietà democratica e l’attacco alle forze che l’hanno fatta fallire e che tuttora vi si oppongono.
La gravità della crisi sta nel fatto che essa investe anche le zone e i settori di maggiore sviluppo, gli occupati e gli emarginati, il rapporto con il lavoro di coloro che da esso sono esclusi, almeno ufficialmente, e di coloro che ne vanno alla ricerca. È una crisi che soprattutto chiama in causa il perché dello sviluppo.
Il quanto e il perché produrre e la nostra proposta dell’austerità
E qui sta la sostanziale novità sorta dalle cose stesse, cioè oggettiva, rispetto agli anni del dopoguerra. In quegli anni ciò che era in gioco, anche agli occhi dei più qualificati rappresentanti della sinistra, era il quanto dello sviluppo. L’obiettivo era quello della ricostruzione, nell’ambito del quale il movimento operaio rivendicava la soddisfazione di elementari esigenze di vita delle masse lavoratrici e popolari.
Oggi, da movimenti di massa e d’opinione che interessano milioni di persone, è posto in discussione il significato,il senso stesso dello sviluppo, o, come veniva recentemente osservato, il che cosa produrre, il perché produrre. Ma ciò vuol dire porsi il problema di quale intervento deve operare la classe operaia nella struttura economica del paese per introdurvi le risposte ai nuovi perché, cioè le motivazioni nuove capaci di dare un senso al lavoro e le misure nuove che lo garantiscano a tutti. E’ su questi punti che è avvenuta la rottura tra le generazioni, il distacco dal lavoro di milioni di giovani, che lo rifiutano o lo patiscono in quanto lavoro alienato, e tale esso indubbiamente è e rimane (ma ovunque, in ogni parte del mondo, sia pure in forme diverse, a questo stadio della storia e della civiltà umana).
Sbrigativamente, si sono accusati in blocco giovani e ragazze di non voler lavorare (o di non voler studiare) solo perché rei di domandarsi e di voler discutere il perché del lavoro (o il perché dello studio). Fuori da ogni esagerazione estremistica e pur respinto ogni irrazionalismo, questo problema è reale, c’è. Ma se le cose stanno così, i termini di un compromesso di portata storica tra chi è solo interessato al quanto produrre e chi è interessato invece al che cosa e al perché produrre possono essere delineati con sufficiente approssžmazžone.
Noi abbiamo cercato di farlo proponendo al paese il grande tema dell’austerità, un discorso nel quale era presente certamente anche una componente morale di condanna contro privilegi e lussi e sprechi, che divenivano tanto più insopportabili quanto più diminuivano, nella nuova divisione mondiale del lavoro, le risorse a disposizione dell’Italia e quanto più appariva ingiusto ripartire queste diminuite risorse solo sulla base del prezzo. Una selezione affidata al prezzo – si tratti di pane o di carne o di gasolio – non è quanto di più ingiusto colpisce i poveri e i meno abbienti? Il nostro discorso sull’austerità non si limitava tuttavia solo a porre un’esigenza di migliore giustizia distributiva, punto al quale pure teniamo e al quale non siamo disposti a rinunciare.
Un controllo diretto della classe operata su una parte dell’impiego delle risorse
Il nostro discorso proponeva e propone alla società italiana e alle sue diverse componenti una politica economica nuova, nella quale i problemi della quantità dello sviluppo e della sua qualità, della sua espansione e delle sue finalità si saldino, e si esprimano anche in un intervento nuovo della classe operaia non solo sulla distribuzione del reddito, intervento che rimane irrinunciabile ed essenziale, ma anche sulla forma e sulla qualità dei consumi e quindi sul processo stesso di accumulazione.
La domanda da porre – notavamo al XV Congresso del nostro partito – è se non sia possibile compiere un passo in avanti in una direzione che dia alla classe operaia una iniziativa e maggiori garanzie per la promozione degli investimenti e per l’aumento dell’occupazione. Si tratta di vedere se non possono essere ricercate soluzioni e strumenti nuovi, che consentano alla classe operaia di controllare in modo autonomo e diretto almeno una parte dell’impiego delle risorse.
Questa esigenza, che è presente e discussa nel movimento operaio di altri paesi dell’Europa occidentale, matura anche da noi e richiede una ricerca e un impegno per giungere a elaborare proposte che siano adeguate alla realtà italiana e alla storia e alle caratteristiche del movimento operaio italiano. Ciò che ci spinge è la convinzione profonda che la classe operaia non è assolutamente disposta ad accettare che i suoi soldi vengano utilizzati per rilanciare i vecchi e tarati meccanismi economici che non hanno prospettiva; ma che essa è pronta a fare la sua parte di impegno materiale e morale per interventi che espandano la base produttiva, trasformino le strutture economiche e sociali, avviando a soluzione, in primo luogo, la questione meridionale.
Accettare la riduzione strutturale del nostro sviluppo economico
Sapevamo e sappiamo che non si tratta di una proposta facile. Il capitalismo per sua natura conosce solo compatibilità e rapporti quantitativi, tra indici astratti. Porre al suo interno un problema di valori, di finalità, di obiettivi dell’accumulazione, di un intervento innovatore nell’assetto proprietario tale da spingere materialmente la struttura economica verso tali obiettivi, e fare di ciò oggetto e scopo di un impegno diretto e inusitato della classe operaia, significa aprire contraddizioni aspre nel complessivo processo economico e suscitare difese corporative potentissime.
E ci rendiamo conto che anche per la classe operaia il cessare di dare per scontato che i problemi dell’accumulazione e della produzione siano lasciati in mano e comunque risolti dai capitalisti e il prendere invece coscienza che oggi è suo dovere storico assumerli su se stessa e farli propri (nell’ambito di certi fini e di certi obiettivi) richiede una scala diversa delle proprie esigenze e rivendicazioni, implica certamente un salto politico e culturale, comporta l’acquisizione di quella che oggi, con moda discutibile, viene chiamata «cultura di governo».
Eppure è questa l’operazione da fare in Italia se vogliamo uscire dalla crisi: se vogliamo uscire da quella che Luigi Spaventa chiamava «rassegnata e passiva accettazione di una riduzione strutturale dello sviluppo». Prendiamo il caso esemplare della questione dell’energia. C’è qualcuno che pensa di risolverla affrontandola solo in termini di kilowatts di potenza e di tonnellate equivalenti al petrolio? O essa non è tale, invece, sia che si tratti del risparmio energetico, che è comunque da attuare, sia che si tratti di reperire fonti alternative al petrolio, da richiedere una politica che risponda positivamente agli interrogativi sugli usi finali dell’energia (e dunque sul per che cosa occorre energia), sulla sicurezza, sull’inquinamento dell’ambiente, sulla protezione sanitaria?
E allora: vogliamo un’Italietta ridimensionata e rattrappita, sempre più squilibrata nelle sue aree geografiche, permanentemente percorsa da tensioni e turbata da laceranti contrasti, decadente, o vogliamo imprimerle un processo di crescita civile e di trasformazione economica e sociale democraticamente diretto e governato? Questo è il nodo. Ed è un nodo chiaramente politico perché non è risolvibile se non portando a sintesi politica contraddizioni, esigenze contrastanti, rivendicazioni categoriali e corporative che nel loro spontaneismo, nell’esplicitarsi delle loro unilaterali verità hanno solo un effetto frantumatore, anarcoide, destabilizzante e finiscono di fatto, sul terreno economico, per operare solo in direzione di un ridimensionamento strutturale dello sviluppo e, sul terreno politico, in senso autoritario e reazionario.
Se il nodo è politico…
Il popolo italiano ha creato e si è dato gli strumenti per sciogliere questo nodo: e da qui gli viene anche la possibilità di esercitare un ruolo europeo e mondiale. La Repubblica italiana è una delle non molte democrazie occidentali fondata sull’esistenza di grandi partiti di massa, i quali, pur con le loro specifichedifferenze, sono in grado di garantire una partecipazione permanente della maggioranza dei cittadini alla vita politica e civile, una partecipazione che crescerebbe ancor più e si farebbe più ordinata e costruttiva se quei partiti di massa lavorassero insieme a un comune progetto di risanamento e di rinnovamento accogliendo ed esprimendo le comuni speranze delle grandi masse popolari, dalle quali ciascuno di essi è seguito e riceve il voto: qualcosa, insomma, in cui certe scelte possono non essere la pura proiezione della collocazione economica e dello status sociale, della figura categoriale o della condizione corporativa dei cittadini, i riverbero di un «angusto classismo», come scriveva Togliatti.
E proprio nell’articolo del ’46 che ho ricordato, egli affermava un’altra cosa importante: il tratto caratterizzante della democrazia post-fascista era stata la nascita e l’esistenza di grandi partiti di masse capaci di essere tramite non solo dei bisogni, delle necessità, delle volontà delle grandi masse dei lavoratori e dei produttori, ma «delle grandi masse dei consumatori, uomini, donne, vecchi, giovani», cioè di quelle masse che, attraverso il maturare della questione femminile, della questione degli anziani, della questione giovanile, più direttamente di ogni altro pongono all’ordine del giorno non solo il tema della qualità dello sviluppo economico, ma il tema della qualità della vita.
Ma allora, se come ho detto, il nodo è politico, tale cioè da non poter essere sciolto se non attraverso una sintesi della quale in primo luogo i partiti di massa, ma poi tutti i partiti democratici, devono tornare ad essere, solidalmente, strumento e condizione, allora non è difficile vedere perché le forze reazionarie e conservatrici abbiano sferrato in questi mesi il loro furibondo attacco proprio contro i partiti di massa in generale, ma soprattutto contro il Pci. Più difficile è comprendere come e perché questo attacco, che in ultima analisi è diretto contro tutti i partiti democratici, abbia ricevuto un contributo anche dalla parte più aperta della Dc, in parte, dallo stesso Psi.
Il fatto è che, come avevamo previsto, quando la pregiudiziale esclusione del Pci dal governo non solo impedisce che vengano affrontati i problemi di un nuovo corso economico, cioè i problemi di generale indirizzo e di legislazione, ma anche i problemi che sono ormai di gestione dell’economia, della società, dello Stato e delle sua amministrazioni, si fa chiaro che la discriminazione anticomunista è divenuta il tarlo che corrode le istituzioni, che colpisce la democrazia e che finisce per danneggiare persino coloro che se ne fanno iniziatori, vessilliferi e custodi.
Quando l’attacco al «centralismo democratico» del Pci diventa, come è diventato, attacco ai partiti in quanto tali (alla così detta «forma-partito»); quando si condanna tutto ciò che non sia puro movimento d’opinione; quando l’attacco è diretto a denigrare ogni sforzo teso a organizzare la società attorno a un fine, è diretto contro ogni scala di valori che non sia quella gratuita e imprevedibile che viene confusamente e contraddittoriamente espressa dal moltiplicarsi degli appetiti egoistici dei singoli, dallo sfarinarsi della società in una miriade di nuclei corporativi e delle lotte al loro interno, dall’accentuarsi dell’induzione al consumismo; ebbene quando awiene tutto questo, e questo sta avvenendo, non dovrebbe essere difficile capire che l’attacco non riguarda solo il Pci ma tutti i partiti che tendono ad organizzare le masse e a ordinare in modo nuovo la società in vista di certi ideali.
E’ possibile che la percezione di questi reali problemi e doveri non offra un nuovo e più alto terreno d’incontro tra noi e i compagni del Psi. E’ possibile che nessuno dentro la Dc, dopo la morte di Moro, dimostri di intendere che questo è il banco di prova per tutti e che, per ciò che la riguarda, è in gioco oggi il suo ruolo e forse la sua stessa essenza di partito popolare e democratico?
Che siano travolti i responsabili di tanti errori e di tante scelte antipopolari e antiunitarie non ci turba: ci preoccupa invece, e molto, che in una situazione quale quella attuale prevalgano l’ottusità del pragmatismo, le miserie del qualunquismo, i calcoli brevi dell’opportunismo: tutti portatori di acqua al mulino della disgregazione e dell’imbarbarimento del paese.