Maria Berlinguer: “Quasi tutti i figli politici di mio padre l’hanno rimosso”

L’intervista di Maria Berlinguer, secondogenita di Enrico, rilasciata a Simonetta Fiori per il Venerdì di Repubblica, uscito in edicola il 31 maggio 2024.


«Dopo quarant’anni ho visto le im­magini di Padova fino all’ultima sequenza. Prima non ce l’avevo mai fatta. E ho scoper­to che alla fine mio padre sorride. Sì, al termine del suo discorso in piazza della Frutta, l’ultimo della sua vita, già devastato dall’ictus, mio padre riesce a sor­ridere».

Maria Berlinguer è la secondogenita di En­rico Berlinguer. Meno famosa di Bianca, anche più introversa, ha lavorato a lungo nei giornali (l’ultimo approdo, La Stampa) scegliendo di apparire il meno possi­bile: non circolano sue foto da adulta e neppure in questa occasione ha voluto essere ripresa da un fotografo. Scontrosa e tenerissima, ribelle e ge­nerosa, è nota nella comunità giorna­listica per la non comune capacità di scartavetrare le ipocrisie dell’ambien­te con i suoi giudizi inappellabili. Complici i suoi tre fratelli, fin da ra­gazza custodisce le memorie famiglia­ri ma non ha mai rilasciato interviste.

«Non ho mai parlato perché mio padre ci ha sempre tenuto a separare la sfera pubblica da quella privata. Il silenzio era il mio modo di rimanergli fedele. Ma ora Bianca, Marco e Laura hanno molto insistito: dai Maria basta».

È rimasta colpita dalla moltitudine di ragazzi alla mostra romana su Berlin­guer, per due mesi e mezzo una folla costante.

«Magari sono figli di vecchi militanti, però a vedere la mostra sono venuti da soli.E allora m‘è venuta vo­glia di raccontargli chi era mio padre».

Ti aspettavi di vedere così tanta gente alla mostra al Mattatoio?

«No, non pensavo che a distanza di quarant’anni mio padre fosse ancora così presente nella testa e nei cuori della gente. Omaggiato perfino dagli avversari politici».

Come spieghi questa memoria resi­stente?

«Credo che tutti gli riconoscano la politica come scelta di vita al servizio della collettività, un tratto comune della sua generazione. Papà è rimasto fino alla fine fedele ai suoi ideali, costantemente al fianco degli ultimi, dei più deboli. Era un comunista italiano, protagonista di un’esperienza politica che non ha niente a che vedere con i cosacchi all’assalto di San Pietro. Un convinto democratico che ha parteci­pato alle principali riforme del suo Paese».

Oggi tutti lo celebrano, ma dopo la sua morte non sono mancate criti­che feroci a sinistra da parte dei suoi stessi figli politici.

«Quasi tutti l’hanno rimosso, liqui­dato, quindi dovrei esprimere giudizi severi su un sacco di gente e non mi va. Posso solo rilevare che oggi, grazie all’amore delle persone, mi sembra più vivo lui dei tanti che gli hanno voltato le spalle».

La critica più ingiusta?

«Piero Fassino disse che papà aveva cercato la bella morte per sfuggire al­ lo scacco matto di Craxi. Ma posso dir male di Fassino proprio ora? Stendia­mo un velo pietoso».

Per quarant’anni la tomba di tuo padre al Cimitero Flaminio è rima­sta integra. Nell’ultimo mese per due volte è stata profanata: le aiuo­le divelte, i vasi infranti e rubati. Che idea ti sei fatta?

«Uno squilibrato, evidentemente. Ma uno squilibrato fascista. Forse non è un caso che dopo quattro decenni di quiete avvengano episodi del genere: il pazzo si deve essere sentito legittimato dal mutato clima politico, una stagione segnata da violenza e dal re­vanchismo nero».

Qual è il tuo rapporto personale con la memoria?

«Ricordo tutto con grandissimo ni­tore, perfino i dettagli. Poi sono costan­temente sollecitata. Le immagini, la voce: come se tornassi indietro nel tempo. Sono appena uscita dalla pro­iezione di un bellissimo documentario di Samuele Rossi, Prima della fine. È lui che mi ha costretta a vedere il fil­mato sul palco di Padova che non ave­vo mai voluto vedere. Papà che anna­spa, s’interrompe, tenta faticosamen­te di resistere al malore. Ho pianto tutto il tempo. E il regista piangeva insieme a me. “Ma Samuele che t’ho fatto per meritarmi questo?“, protesta­vo. In realtà è stato molto bravo nel dare un senso a quell’ultimo sorriso che io non avevo mai visto».

Che significato dai a quel sorriso, oggi?

«Credo che sia proprio nella parte finale che debba essere cercata l’ere­dità di Berlinguer, un lascito ancora molto vivo. Le donne, i giovani, l’am­biente. La questione morale, la denun­cia dell’occupazione dello Stato da parte dei partiti. E l’impegno per la pace, in un mondo completamente di­verso dall’attuale: un messaggio che non possiamo non cogliere ora, seduti ai bordi di un vulcano pronto a esplo­dere. Lo consideravano un politico fi­nito, ma diceva cose attualissime».

Dove stavi la sera del 7 giugno di 40 anni fa, quando tuo padre fu colto da malore sul palco?

«A casa, in via Ronciglio­ne. Avevo 22 anni. Era tardi e vidi un flash al Tg1».

L’hai saputo dalla tv?

«Non so dirtelo. Scorsi solo un’imma­gine di mio padre sen­za capire: forse disse­ro la parola malore, ma chissà. Squillò subito dopo il tele­fono che aveva la linea diretta con Bot­teghe Oscure. Era mio zio Giovanni: “Papà si è sentito male, dobbiamo an­dare tutti a Padova“. Una macchina prelevò mia madre a notte fonda. Noi figli la raggiungemmo l’indomani con il primo volo».

Poi, cosa ricordi?

«Una bolgia infernale nella clinica di Padova. Gente che entrava e che usciva dalla sala di rianimazione, co­me se fosse un salone di ricevimento, non un luogo asettico in cui un malato versava in fin di vita. Giancarlo Pajetta dirigeva il traffico con piglio vigoroso. E Nilde lotti parlava già dei funerali, come se noi famigliari fossimo traspa­renti. A un certo punto vedemmo usci­re Gianni De Michelis, pronto a detta­re ai giornalisti: “È bianco come una cera”».

Voi non entravate?

«Mamma ci teneva fuori per proteggerci. Intanto affluiva molta gente comune, vecchi militanti in lacrime. D’un tratto si levò una voce: “Sta arrivando Craxi, mi raccomando niente fischi”. A quel punto scattò la ribellione di noi ragazzi. No, pure Craxi no. Ci fu uno scontro molto vivace tra mio fratello Marco e Pajetta che gli urlò contro: “Tuo padre l’avrebbe fatto entrare!”. Ma Marco riuscì a imporsi e mamma ci sostenne».

Berlinguer era stato appena fischiato al congresso socialista.

«Probabilmente Craxi era stato spinto ad accorrere a Padova anche da sensi di colpa. Mi ricordo la telefonata tra me e mio padre dopo i fischi di Ve­rona. lo singhiozzavo come una scema. E lui, dolcissimo, cercava di calmarmi:Ma che fai, piangi? Ma no, non devi. I fischi fanno parte della contesa politica. Non bisogna reagire emotivamen­te“. Era fatto così. Mi diceva sempre: chi fa politica non deve nutrire ranco­ri. E bisogna sempre darsi il tempo per ragionare, per dare una sistemazione alle cose».

Tu eri l’unica dei suoi figli iscritta alla Fgci.

«Avevo preso la tessera a tredici anni, sezione Ponte Milvio. E seguivo la politica con grande coinvolgimento. Non posso dimenticare gli ultimi mesi di mio padre nel Pci, quando venne lasciato solo. lo l’aspettavo a casa la sera tardi, per cenare insieme a lui. E dalla mia bocca uscivano cattiverie inaudite sui compagni che tramavano alle spalle. Lui cercava di placarmi: ma che dici, non bisogna essere troppo precipitosi nei giudizi…».

Con chi ce l’avevi?

«Non certo con chi discuteva la sua linea alla luce del sole, ma con chi tra i miglioristi lavorava nell’ombra senza avere il coraggio di confrontarsi a viso aperto. Mio padre ne era molto amareggiato, non era nel suo stile. Sono sicura che dopo le elezioni si sarebbe dimesso. Più volte ci disse che non vo­leva fare il segretario a vita. E chiuse l’ultima direzione, sei giorni prima di morire, con una frase inequivocabile: “Prendo atto che non siete d’accordo con me, faremo una discussione approfondita subito dopo la campagna elettorale”. In altre parole, me ne vado».

Cosa avrebbe fatto?

«Sarebbe rimasto dentro il partito, naturalmente. La sua grande passione erano gli esteri, aveva rapporti con i progressisti di tutto il mondo. E poi non era un uomo mono-dimensionale, schiacciato sulla politica. Aveva tan­tissimi interessi, leggeva molto, amava la natura, era un grande camminatore. Come ti ho detto prima, non nutriva rancori e non faceva giochi di potere».

Che padre è stato?

«Direi normale, se non apparisse un aggettivo improprio. È stato lui a inse­gnarci a nuotare, ad andare in biciclet­ta, a guidare la vela latina sui gozzi di Stintino. Gli piacevano molto i bambi­ni. Con Livio Maitan, capo di una cor­rente trockista, organizzava i tornei di calcio per i più piccoli e loro due erano gli unici adulti a scendere in campo. Era un padre presente, compatibil­mente coni suoi molti impegni. E se si accorgeva di qualche inquietudine, specie nell’età adolescenziale, si fer­mava a parlare fino a notte fonda. Lo faceva con tenerezza, senza pontificare, forse con una leggera insistenza finché non ci vedeva completamente rasserenati».

Era un padre fisico?

«No, non direi. Molto riservato, anche nell’affettuosità. Ti prendeva la mano con delicatezza».

Su cosa non transigeva?

«Le bugie. Le sgamava immediata­ mente, e s’infuriava. Però poi ti dava fiducia. E ti permetteva di crescere. Credo che riconoscesse nella mia ri­bellione la sua rabbia adolescenziale».

Te ne parlava?

«Solo una volta mi confidò che aveva provato dentro di sé una rabbia indo­mabile. Aveva perso la madre a14 anni, un dolore da cui difficilmente ci si ri­prende. Ma non si apriva molto sui suoi tormenti. Lo faceva indirettamen­te attraverso le lezioni di filosofia, da sempre una sua grande passione».

Ti spiegava il pensiero filosofico?

«Sì, si metteva a fare ripetizioni con noi figli. Platone, Kant, Schopenhauer. E ovviamente Engels e Marx. Pensa che da ragazzo aveva l’abitudine di com­prarsi i testi filosofici con le vincite a poker. M’insegnò anche a giocare a poker, salvo poi mettermi in guardia: stai attenta che si diventa dipendenti».

Gli piaceva l’azzardo?

«Gli piaceva la sfida. In mare a Stin­tino, vincendo le proteste del vecchio pescatore zio Baingiu, usciva in barca a vela solo quando il maestrale soffia­ va impetuoso. Con mia madre erano furibonde litigate perché si portava dietro noi bambini. Oppure si arram­picava a Capo Falcone, su in alto, e poi ci salutava dalla vetta gridando “yuhuuuuu”, mentre zia Ines Siglienti ci ingiungeva: “Fate finta di non veder­lo…“. La Sardegna era la terra della libertà: tornava bambino, senza rego­le e senza condizionamenti. Diceva che da pensionato sarebbe tornato a viver­ci. Poi, certo, dopo il sequestro Moro anche le vacanze sarebbero cambiate».

Il 16marzo del 1978 è una data indimenticabile per tutti. Io ti ricordo a scuola, al liceo Lucrezio Caro, seduta da una parte con Bian­ca. Non dicevate una parola. E fuori arrivò una macchina della polizia.

«Pensai immediatamente che pote­va succedere a mio padre. Nei giorni successivi ci convocò in soggiorno, dopo averne parlato riservatamente con mamma: se mi prendono non vo­glio che si tratti con le Brigate Rosse. E qualsiasi mia lettera che si discosti dalla volontà espressa ora da uomo libero non deve essere presa in consi­derazione».

Confermava le vostre paure.

«Una sentenza di morte pendeva anche sul suo capo. Vivemmo anni drammatici, a un certo punto scattò un allarme sulla nostra famiglia. Ci furo­no sconsigliate le vacanze in Sardegna, meglio l’Elba sotto la vigilanza dei compagni portuali di Livorno. Mio pa­dre era convinto che l’obiettivo politi­co delle Brigate Rosse fosse proprio il Pci a cui volevano impedire l’ingresso al governo. E che l’evoluzione politica del partito fosse vista con sospetto, per ragioni opposte, sia da Washington che da Mosca. Ma non aveva informa­zioni che potessero dimostrare un coinvolgimento di potenze straniere nel terrorismo rosso».

Nel marzo del 1973 avevano tentato di ucciderlo in Bulgaria. (ND, in realtà accadde il 3 ottobre)

«Luì capì subito che era un attenta­to, mascherato da incidente automo­bilistico. Un camion pieno di sassi non passava lì per caso. Dopo l’incidente insistettero per portarlo in ospedale, ma lui si rifiutò temendo di non uscir­ne vivo. Chiamò l’ambasciatore italia­no che lo fece rimpatriare immediata­mente».

Ma una volta tornato in Italia non disse niente.

«Ne parlò solo con mamma, non con noi. Pensava che denunciarlo pubbli­camente sarebbe potuto essere con­troproducente. Si confidò soltanto con Emanuele Macaluso, sapendo che da buon siciliano sarebbe stato capace di mantenere il segreto. Al di là delle di­ verse idee politiche, c’era tra loro una forte amicizia: isolani entrambi, ave­ vano molti tratti in comune. E infatti Macaluso conservò a lungo quella con­fidenza».

Com’erano i rapporti tra i tuoi geni­tori?

«Per molti aspetti erano diversi, ma è stata questa differenza a nutrire il loro rapporto. Indipendente ed eterna bastian contraria, mia madre è stata la sua forza. Abbiamo ritrovato le loro lettere d’amore, struggenti per la tene­rezza e l’inaccessibile intimità. Molte parlano di noi, ma altrettante rivelano una sfera segreta tutta loro, che pre­scinde totalmente dai figli. Una storia d’amore molto bella. Lui glielo ricono­sce espressamente: grazie alla tua au­tonomia sei stata un pungolo fonda­mentale per la mia vita».

Tua madre non è mai stata comuni­sta.

«No, non ne condivideva l’ideologia, anche se credo votasse per il Pci. Era una cattolica, sempre con quel suo mo­ do critico e ribelle, tanto che papà la provocava: in fondo sei una protestante“. Quando mamma si fidanzò con papà, la nonna Bianca non era affatto contenta. Però poi tra genero e suocera sarebbe cresciuto un legame forte: all’epoca dei golpe– tentati, progetta­ti o solo temuti mio padre andava a dormire da lei».

Hai mai litigato con tuo padre?

«Una volta sola, per i soldi. Non aveva alcun rapporto con il denaro. Prendeva lo stipendio da metalmec­canico, come da tradizione comuni­sta, e non si poneva minimamente il problema di avere una famiglia numerosa.Non mi parlare di soldi, fam­mi il piacere“. “Allora la prossima volta fai l’eremita e non metti al mon­do quattro figli“. Anche mamma fu molto brava a gestire le magre finanze senza dargli il tormento».

La stampa ostile diceva che eravate miliardari.

«Ah sì, ricordo i titoli del Borghese, una rivista di destra: aristocratici con vasti possedimenti in Sardegna. Mio padre ci rideva sopra, ma non troppo: ehi, non crederete mica a questa robaccia…».

Non voglio riportarti nella camera ardente. Ma alla fine riusciste a ve­derlo?

«Sì, poco prima che la bara venisse spedita a Venezia, dove l’aspettava l’aereo del presidente Pertini. Cinque minuti soli con papà. Non sarò mai abbastanza grata a Pecchioli e Ingrao che ci permisero quel saluto solitario. Il partito ci aveva espropriato del cor­po paterno, e il lutto privato fu fagoci­tato da quello pubblico. Ma devo anche aggiungere che dalla gente ci arrivò un gesto d’amore che non potrò mai di­menticare. Lungo la strada, da Padova all’aeroporto Marco Polo, non fummo mai lasciati soli. Ecco, io quell’affetto lo sento ancora».

Sei riuscita a elaborare il lutto?

«Non credo che il lutto dei genitori si possa mai elaborare. S’impara a con­viverci, questo sì. Dopo i funerali scap­pai a Sassari dove ebbi l’opportunità di lavorare alla Nuova Sardegna. Pensavo che andare via di casa potesse aiutarmi, in realtà non mi sono data il tempo giusto per misurarmi con il do­lore. Poi il ritorno nell’isola risvegliava i ricordi più belli».

E oggi?

«Penso a mio padre costantemente. Mi domando che cosa avrebbe detto o fatto. Il mio più grande rimpianto è che non abbia conosciuto Letizia e Cateri­na, le mie figlie. E Giulia, Enrico e Abril, figli dei miei fratelli. Lo sogno spessis­simo, sogno le sue mani lunghe e affu­solate, mani gentili. Ci diciamo un sac­co di cose. Ma non penserai mica che te le racconti? No, quelle restano tra noi».