di Beppe Sebaste, L’Unità, 10 giugno 2009
Della «statura internazionale» di Berlinguer ebbi la prova quando alla notizia della sua scomparsa, nella sala tv della cité universitaire di Ginevra dove ero studente, giovani di varie etnie e Paesi mi rivolsero le condoglianze (poiché ero italiano). Quanto al suo indimenticabile carisma, una foto che lo ritrae è forse traduzione iconica della sua diversità: Enrico Berlinguer esile e quasi lieve, i capelli spettinati al vento, di fianco a rappresentanti del Pcus tetragoni e massicci, da cui era già politicamente a distanze siderali.
Difficile spiegare oggi il suo «comunismo etico». Per farlo si dovrebbe decostruire impietosamente e quasi per intero quanto la sinistra ha fatto negli ultimi vent’anni: la rincorsa a un profilo di governo a prezzo della rinuncia a essere vincente su fronti più ampi – la cultura, la società, il pensiero, il linguaggio – fino a rivalorizzare Craxi contro di lui. Dopo Berlinguer la critica delle ideologie (quelle di sinistra, mai quelle del mercato e del risorto darwinismo sociale) ci ha condotti all’imperio dell’ideologia più triste, quella della non ideologia, cioè del mero presente, senza futuro e senza storia (tranne gli spot pubblicitari).
Dissipata con la propria identità e differenza quell’egemonia culturale che a ragione la destra rimproverava alla sinistra, dopo Berlinguer il linguaggio dei politici è diventato un «lessico famigliare», separato dai cittadini ma condiviso da destra e sinistra, fino alla ripetizione di quella parola d’ordine comune e vacua di senso, «riformismo». Perché anche chi della mia generazione ha avuto col Pci e con Berlinguer conflitti fortissimi lo rimpiange come un padre o un maestro? Per la splendida intransigenza morale che emanava, per un’affinità, prima che elettorale, elettiva. Se è vero che solo i poeti, a differenza dei politici, non possono mai mentire, Berlinguer era un poeta. Ma votato da un terzo degli Italiani.